Per cogliere il significato storico del Sessantotto, che ovviamente non è circoscrivibile solo a quell’anno, occorre affrancarsi sia dalle nostalgiche mitizzazioni (“formidabili quegli anni”), spesso ancora operanti in molti protagonisti di quel periodo, sia dalle miopi sottovalutazioni, che troppo condizionano le analisi razionalizzanti di buona parte degli studiosi di quel fenomeno storico.
Fu indubbiamente un evento complesso e caratterizzato da ambiguità, che tuttavia aprì una “breccia” nel secondo Novecento, come sottolineò fin da subito Edgar Morin, giovane docente dell’università Paris-Nanterre durante il Maggio francese, e mette tuttora in seria difficoltà anche la storiografia più accorta, quando ne ricerca le cause e i moventi che lo provocarono.
Promosso da un proteiforme movimento contestatario, fu un avvenimento “unico” nella storia dell’umanità, come rilevano nel loro recente studio Marcello Flores e Giovanni Gozzini, e diede inizio a processi di cambiamento, che sono ancora oggi in corso: la parità uomo-donna, la difesa delle minoranze, la coscienza ecologica, l’esigenza di riappropriarsi delle scelte di vita.
La novità assoluta furono i giovani, che in molte parti del mondo si mobilitarono simultaneamente per molteplici e svariate ragioni: da Berkeley a Pechino, da Madrid a Praga, da Parigi a Varsavia, da Berlino a Roma, da Tokio a Città del Messico. I giovani degli anni sessanta furono la prima generazione nata dopo la seconda guerra mondiale ed erano cresciuti negli anni della ricostruzione e della grande ripresa economica, specie in Occidente, definita dallo storico Eric Hobsbawm “età dell’oro” (1945-1973).
La nuova generazione, soprattutto nell’area occidentale, dove in alcuni paesi era notevolmente cresciuta, poteva fruire di un sensibile miglioramento della qualità della vita rispetto ai loro genitori e un numero sempre maggiore di giovani iniziò a frequentare l’università.
Già nella Dichiarazione di Port Huron (15 giugno 1962) gli Studenti per una società democratica (SDS) scrivevano: “Siamo persone di questa generazione, cresciute in condizioni almeno modeste, ospitate ora nelle università, che guardano con disagio al mondo che ereditiamo.”
Sul piano politico-culturale e dei costumi, nel secondo dopoguerra quasi tutti gli stati del pianeta si richiamavano ai grandi ideali della democrazia, che venivano però differentemente teorizzati e vissuti in linea con il blocco geopolitico di appartenenza. Le diverse visioni democratiche, pur in forte se non radicale contrapposizione, erano sempre solidamente strutturate nelle istituzioni dei singoli stati ed erano praticate con zelo nella società civile secondo il medesimo paradigma etico-culturale: il principio di autorità.
Ciò che accomunò trasversalmente la contestazione dei gruppi giovanili, pur agendo in contesti profondamente differenti e sollecitati da istanze e ragioni assai diverse, fu il fermo rifiuto del principio di autorità, che si era imposto in ogni ambito della vita pubblica e privata come autoritarismo e si basava sull’etica dell’obbedienza.
Le forme di protesta, infatti, non si avvalsero degli organismi democratici tradizionali, i partiti o i sindacati, essi stessi accusati di autoritarismo per la loro organizzazione rigorosamente gerarchica e quindi “paradossalmente” organica al sistema.
Il nuovo soggetto politico fu il Movimento, che promosse e guidò forme di contestazione inedite quali il sit-in, il coinvolgimento di associazioni e gruppi informali, cortei, assemblee e occupazioni spesso estemporanee. I giovani studenti rifiutavano di conformarsi acriticamente al sistema economico-sociale e culturale costruito dai loro genitori, che si basava sui valori “materialisti” del benessere economico, e chiedevano di poter decidere liberamente della loro vita.
Per loro “l’obbedienza non è più una virtù” (Don Lorenzo Milani, 1965) ed Edgar Morin spiega che “il fenomeno di desacralizzazione dell’autorità fu gigantesco: il potere stesso si dissolse all’istante, sotto l’effetto di ciò che era stata in origine un’onda febbrile contro una piccola Bastiglia.
La presa della Bastiglia universitaria centrò e colpì l’essenza paternalistica stessa del potere sociale.”
La rivolta dei giovani contro l’imposizione autoritaria non mirava semplicemente a ottenere un posto in quella società, ma ambiva a “una società in cui valesse la pena avere un posto” e i giovani studenti iniziarono a rivendicare valori “postmaterialisti” quali la libertà sessuale, il femminismo, l’ambientalismo, la secolarizzazione.
*docente di storia e filosofia